FRATELLI TUTTI/1: LA GIUSTIZIA RIPARATIVA

Nella sua ultima enciclica Fratelli tutti Papa Francesco affronta il tema della fraternità universale non con un approccio teorico, ma soprattutto provando a disegnare e raccontare come costruirla partendo da nuovi modelli di relazioni umane che siano in grado di promuovere la giustizia, la pace e, appunto, la fraternità. Tra questi il diverso equilibrio che offre conciliare la giustizia con il perdono. Papa Francesco precisa innanzitutto la necessità della giustizia della quale il perdono diventa un elemento di pacificazione, in quanto «perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama» (FT 241). In altri termini «il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede. (FT 241) Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera» (FT 242). Ecco che allora si apre lo spazio per adottare un diverso modello di giustizia: la giustizia riparativa. Ma di cosa si tratta? Sono alcuni anni che anche in Italia si sente parlare sempre più spesso di giustizia “riparativa”: un modello di giustizia che si affianca a quello classico della giustizia “retributiva” e che in tanti Paesi del mondo mostra i suoi benefici effetti sulla stessa tenuta del sistema giudiziario e delle società in cui è stato introdotto. È una forma di giustizia più olistica, che non si limita a ristabilire l’equilibrio sociale ferito dalla violazione della norma di legge ma ridona a vittima e reo un equilibrio morale, un equilibrio personale, un equilibrio più “umano”. La giustizia riparativa si prende carico della sofferenza che deriva dalla violenza, la sofferenza della vittima e quella del colpevole, rispetto alla quale lo Stato può farsi da garante, da facilitatore, da guida.

A differenza del diritto civile di matrice contrattualistica, nei due modelli di giustizia penale in esame gli attori sono sempre tre: la vittima, il reo e lo Stato. Nel modello tipico della giustizia retributiva la dinamica è innanzitutto tra il colpevole e lo Stato, in quanto il primo risponde del reato nei confronti dell’ordinamento e la vittima, attraverso lo Stato, può ricevere “giustizia” indirettamente attraverso la condanna del reo e il risarcimento patrimoniale del danno subito. Nel secondo modello la dinamica “riparativa” nasce tra colpevole e vittima e di questo processo di memoria, di incontro, di conversione e di pacificazione lo Stato ne diventa facilitatore e garante.

La giustizia riparativa non è dunque un modello alternativo di esercizio della giustizia da parte dello Stato, è un modello complementare nel quale lo Stato fa un passo di lato per lasciare che colpevole e vittima si incontrino.

L’utilizzo di termini quale memoria, incontro, conversione, pacificazione ha profondi richiami biblici e non è un caso. È una riscoperta dell’uomo, un recupero dell’uomo ferito del quale la giustizia si fa carico e si fa interprete. È un processo che mette al centro la persona, la vittima e il colpevole, e li accompagna a trovare la pace attraverso un “fare verità” che coinvolge ciascuno dei protagonisti: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 85). Ancora nella Fratelli Tutti Papa Francesco sottolinea infatti che sia nelle relazioni personali che nei grandi conflitti sociali, eredità della storia vissuta dai diversi popoli, «non si deve esigere una specie di “perdono sociale”» in quanto «la riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di promuoverla» (FT 246). In altri termini «non è possibile […] coprire le ingiustizie con un manto di oblio. […] Quello che mai si deve proporre è il dimenticare» (FT 246).

Come osserva Francesco Occhetta «l’esigenza più importante della giustizia nella Bibbia è quella di salvare la relazione»[1], soltanto recuperando la relazione è possibile che la giustizia si compia nella sua pienezza. È interessante notare come nell’etica biblica la ricostruzione della giustizia perduta passi per due modelli: la “mišpat” e il “rîb”, la prima è il giudizio del colpevole, che avviene mediante un processo, il secondo il riconoscimento del male commesso.

In altri termini è un processo di verità del quale tanto la vittima quanto il colpevole hanno bisogno per realizzare la giustizia a dispetto della vendetta, da un lato, del senso di colpa, dall’altro. Il cardinale Martini evidenziava a riguardo che «nel male che si compie c’è già la propria condanna»[2].

Come osserva ancora Papa Francesco «non è compito facile quello di superare l’amara eredità delle ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal conflitto. Si può fare soltanto superando il male con il bene (cfr. Rm 12,21) e coltivando quelle virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la pace» (FT 243). Ecco che allora rieducare il condannato, come chiede la nostra Costituzione repubblicana all’art.27, si ottiene pacificando, perché soltanto le persone pacificate possono riconoscersi in un’autentica relazione[3]. Come evidenzia il magistrato Gianluca Grasso, questo è possibile se al centro del sistema non vi è più «l’infrazione compiuta dal reo e la punizione da infliggergli, ma il dolore della vittima e la riparazione che deve compiere chi ha infranto la legge. L’attenzione si sposta dunque dall’oggetto del reato ai soggetti che sono avvinti dal delitto compiuto, vittima e reo»[4].

Ecco che allora Papa Francesco nell’adottare questo modello per promuovere la fratellanza universale lancia la sfida antropologica, etica, culturale della bontà: «a chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta» (FT 243).

La giustizia riparativa non è perciò “buonista”, nell’accezione negativa che, più a torto che a ragione, sempre più spesso questo termine va assumendo nel dibattito pubblico. Come osserva ancora Occhetta, infatti, «la giustizia riparativa non nega il valore dell’espiazione, ma cambia il modo comune di concepirla: non volere il male per il male, ma il male per il bene dell’altro»[5].

La giustizia riparativa aiuta tutti e apre la strada alla pacificazione delle relazioni come del cuore di ciascuno degli attori in gioco perché, come sottolinea ancora il Papa «occorre riconoscere nella propria vita che quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello e mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi un incendio» (FT 243). La vera giustizia, la vera pace, partono proprio da qui.

(c) Vito Rizzo 2020

 

[1] F.Occhetta, Le radici morali della giustizia riparativa, La Civiltà Cattolica 2008 IV, 448.

[2] C.M.Martini, Nella colpa la pena. Dal magistero del cardinal Martini per i carcerati, in Dignitas 4 (2008), 83.

[3] Del resto il fallimento del fine rieducativo attraverso la giustizia retributiva è sotto gli occhi di tutti: il tasso di recidiva tra quanti vivono l’esperienza del carcere è del 69%, sono soggetti che restano esclusi anche una volta fuori se non hanno imparato ad essere persone nuove, “pacificate” appunto.

[4] G. Grasso, Gli spazi della giustizia nella città, in F.Occhetta, Le politiche del popolo, San Paolo 2020, 105.

[5] F.Occhetta, Le radici morali della giustizia riparativa, cit., 454.

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