Nei giorni scorsi il Dicastero per la Dottrina della Fede e il Dicastero per la Cultura e l’Educazione hanno emanato un documento molto atteso con il quale la Chiesa ha deciso di entrare ufficialmente nel dibattito sull’Intelligenza Artificiale. La Nota “Antiqua et nova” sul rapporto tra intelligenza artificiale e intelligenza umana chiarisce da subito che “con antica e nuova sapienza siano chiamati a considerare le odierne sfide e opportunità poste dal sapere scientifico e tecnologico, in particolare dal recente sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA)”. Chi si aspettava un arroccamento o una condanna senza appello sarà rimasto deluso… Sfide e opportunità, innanzitutto. I rischi derivano da un cattivo uso che si può fare degli strumenti ideati e curati dall’uomo, laddove gli stessi non conservino la giusta relazione con il ruolo insostituibile, da un punto di vista antropologico, dell’intelligenza umana.
Di qui l’importanza di chiarire correttamente i termini della questione, innanzitutto del significato da attribuire alla parola “intelligenza” che resta una prerogativa umana ben più ampia della sola dimensione funzionalistica propria dell’IA. Si legge infatti al n.12 della nota che «le sue caratteristiche avanzate conferiscono all’IA sofisticate capacità di eseguire compiti, ma non quella di pensare. Una tale distinzione è di importanza decisiva, poiché il modo in cui si definisce l’intelligenza va inevitabilmente a delimitare la comprensione del rapporto che intercorre tra il pensiero umano e tale tecnologia». Come evidenziava San Tommaso d’Aquino «il termine intelletto è desunto dall’intima penetrazione della verità; mentre ragione deriva dalla ricerca e dal processo discorsivo». Pertanto, ribadisce la nota «questa sintetica descrizione consente di mettere in evidenza le due prerogative fondamentali e complementari dell’intelligenza umana: l’intellectus si riferisce all’intuizione della verità, cioè al suo coglierla con gli “occhi” della mente, che precede e fonda lo stesso argomentare, mentre la ratio attiene al ragionamento vero e proprio, vale a dire al processo discorsivo e analitico che conduce al giudizio».
Il discrimine è proprio la tensione alla verità che esula dall’elaborazione di una IA, limitata alla gestione di dati e informazioni non necessariamente “vere”…
Pertanto «sebbene sia una straordinaria conquista tecnologica in grado di imitare alcune operazioni associate alla razionalità, l’IA opera soltanto eseguendo compiti, raggiungendo obiettivi o prendendo decisioni basate su dati quantitativi e sulla logica computazionale» (n.30). Viceversa «l’intelligenza umana non consiste primariamente nel portare a termine compiti funzionali, bensì nel capire e coinvolgersi attivamente nella realtà in tutti i suoi aspetti; ed è anche capace di sorprendenti intuizioni. Dato che l’IA non possiede la ricchezza della corporeità, della relazionalità e dell’apertura del cuore umano alla verità e al bene, le sue capacità, anche se sembrano infinite, sono incomparabili alle capacità umane di cogliere la realtà. Da una malattia si può imparare tanto, così come si può imparare tanto da un abbraccio di riconciliazione, e persino anche da un semplice tramonto. Tante cose che viviamo come essere umani ci aprono orizzonti nuovi e ci offrono la possibilità di raggiungere una nuova saggezza. Nessun dispositivo, che lavora solo con i dati, può essere all’altezza di queste e di tante altre esperienze presenti nelle nostre vite» (n.33).
L’IA è straordinariamente “utile” ma non basta; serve a realizzare meglio tante cose ma non aiuta l’uomo a “realizzarsi”.
Il documento prende poi in esame i diversi ambito in cui l’IA può essere utilizzata per aiutare ed elevare l’umanità: dalla sanità alla comunicazione, dalla ricerca all’economia, l’importante è non perdere mai la dimensione etica che deve avere il suo utilizzo.
Attenzione particolarmente delicata è quella rivolta all’eccessiva antromorfizzazione dell’IA, soprattutto per i bambini che «possono sentirsi incoraggiati a sviluppare schemi di interazione che intendono le relazioni umane in modo utilitaristico, così come avviene con i chatbot» (n.60).
Infatti «Nonostante l’IA possa simulare risposte empatiche, la natura spiccatamente personale e relazionale dell’autentica empatia non può essere replicata da sistemi artificiali» (n.61).
Ecco dunque un grande rischio: «si dovrebbe sempre evitare di rappresentare, in modo erroneo, l’IA come una persona, e attuare ciò per scopi fraudolenti costituisce una grave violazione etica che potrebbe erodere la fiducia sociale» (n.62).
Altro aspetto è quello – come ci raccontano spesso le Cronache – di una “sostituzione affettiva” con le macchine. È questa una deriva estremamente pericolosa: «In un mondo sempre più individualista, alcuni si sono rivolti all’IA alla ricerca di relazioni umane profonde, di semplice compagnia o anche di legami affettivi. […] Pertanto, se l’IA è usata per favorire contatti genuini tra le persone, essa può contribuire in modo positivo alla piena realizzazione della persona; viceversa, se al posto di tali relazioni e del rapporto con Dio si sostituiscono le relazioni con i mezzi della tecnologia, si rischia di sostituire l’autentica relazionalità con un simulacro senza vita (cf. Sal 160,20; Rm 1,22-23). Invece di ritirarci in mondi artificiali, siamo chiamati a coinvolgerci in modo serio ed impegnato col mondo, fino ad identificarci con i poveri e i sofferenti, a consolare chi è nel dolore e a creare legami di comunione con tutti» (n.63).
Ben venga dunque l’IA, purché non si perda di vista, in ogni ambito, la profonda e peculiare dignità e unicità dell’essere umano. Solo così saremo realmente intelligenti, gustando appieno la ricchezza della nostra umanità.
© Vito Rizzo 2025
[Articolo pubblicato sul quotidiano Le Cronache di Salerno del 2 febbraio 2025]
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