I GIOVANI E LA DERIVA EDUCATIVA

Come fortunatamente a volte succede, l’otium estivo è anche l’occasione per riprendere in mano o scoprire vecchi libri, senza l’ansia del tempo rubato agli impegni di ogni giorno o, ancora peggio, al necessario riposo notturno. È così che ho potuto lasciarmi stimolare da un vecchio libricino di Don Luigi Giussani, “Il rischio educativo”, un breve testo di grande intelligenza e di straordinaria attualità.

Sì, perché uno dei più grandi rischi della deriva contemporanea, il relativismo, è quello di incidere così profondamente nella dinamica educativa da far smarrire completamente la dimensione di consapevolezza antropologica a vantaggio, laddove c’è, di un mero nozionismo. Se da un lato la visione di Jacques Delors – che pure ha ispirato, o avrebbe dovuto farlo, la pedagogia degli ultimi vent’anni – promuove l’idea di un processo olistico in grado di ampliare le aree d’interesse avvalendosi di una molteplicità di punti di vista, nella realtà per tanti insegnanti ha prevalso una fuga dal ruolo educativo dietro quello che don Luigi Giussani già negli anni ’70 definiva un’autentica abdicazione ammantata di una pretesa “neutralità”. È in questo approccio che si riscontrano le radici di quella “liquidità” emotiva, antropologica, di valori che secondo Zygmunt Bauman è la cifra della civiltà post-moderna.

La domanda che dobbiamo porci è se questo approccio sia un bene per i nostri giovani. Se questa pretesa neutralità, questa apertura alle opinioni “comunque siano” e di “chiunque siano” sia il modo corretto di costruirsi un’opinione propria, con una solidità di pensiero e un adeguato processo di metabolizzazione interiore.

Quello che emerge dai social è il vertice di una piramide che è costruita sulla legittimità diffusa della post-verità. Umberto Eco ne aveva denunciato i sintomi nella sua citatissima prolusione accademica in occasione del conferimento honoris causa della laurea in “Comunicazione e cultura dei media”: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

Bene, quegli “imbecilli” siamo noi, sono le nostre ragazze e i nostri ragazzi, sono i genitori, gli educatori, gli insegnanti, i politici e gli opinion leader; chiunque in questi anni abbia abdicato al ruolo di costruttore di coscienze, dell’autonomia di giudizio, cedendo il proprio ruolo a improvvisati influencer, haters o algoritmiche storie e tweet “di tendenza”.

Non bisogna scomodare Socrate o l’emancipazione contadina di Danilo Dolci per comprendere che educare, dal latino “ex ducere”, è l’arte maieutica di “tirare fuori” da ciascun individuo il meglio di sè. Ma questo non lo si fa senza modelli educativi, piuttosto lo si costruisce proprio proponendo con autorevolezza modelli educativi che stimolano, interrogano, agganciano le coscienze per tirar fuori le radici di una personalità autonoma.

È necessario che ai giovani venga insegnato a fare esperienza, esperienza della vita, attraverso (anche) lo studio e la formazione culturale, ma nondimeno attraverso la formazione umana, un’educazione a sviluppare quella intelligenza emotiva così ben evidenziata da Daniel Goleman.

Il rischio educativo che denunciava don Giussani è quanto mai attuale, affrontare la vita rinunciando a fare esperienza della vita e coprire questo vuoto di senso con l’accumulo di esperienze. La differenza forse sta tutta nell’accezione che diamo a questo termine: esperienza. Nel primo caso si tratta di capire il senso delle cose, “intelligere”, “leggere dentro”; nel secondo caso, provare, provare, provare riempiendo di esperienze un senso di vuoto inappagato.

Forse siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Covid o Nocovid, in presenza o a distanza, la sfida educativa parte proprio da qui.

(c) Vito Rizzo 2020

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